
Ho avuto la fortuna di avere il turno pomeridiano il 4 marzo, l’ultimo giorno di scuola prima della sospensione delle lezioni per il coronavirus. Ai primi di marzo, in pochi giorni siamo passati dalla definizione della tanto sognata gita, pensata e organizzata già da ottobre, all’annullamento della normale attività scolastica. Visti i tempi, non conviene anticipare le somme per bloccare le prenotazioni, durante la programmazione settimanale del giorno precedente, ci eravamo espresse così tutte le docenti della scuola. Meglio non rischiare.
Il coronavirus era ancora lontano dalla Sardegna e dalle nostre vite e il mio medico per tutti era un esagerato: con la mascherina e guanti si affacciava in sala d’aspetto e mandava a casa gli anziani dicendo di chiamarlo, nei casi più urgenti li avrebbe visitati a casa. Le ricette ripetibili le mandava via mail o whatsapp. Stiamo parlando della fine di febbraio, inizi di marzo. Aveva visto le radiografie dei malati di coronavirus: con quei buchi enormi nei polmoni nessuno poteva respirare da solo. Sentendolo ho avuto la conferma che non era la solita influenza, come sosteneva la maggior parte della gente in tv o al supermercato. Io ero già allarmata perché seguo da mesi la pagina Facebook del virologo Burioni, che non ci ha nascosto nulla e tutto ciò che ha detto si è avverato. Ma in quei giorni, l’economia e le città non si dovevano fermare, si dava la caccia ai cinesi o asiatici.
La mattina presto del 4 marzo, come mio solito, ancora a letto accendo il Kindle e apro il sito del Corriere della sera il Presidente del Consiglio”Conte pensa di chiudere le scuole“, rimango di sasso. Nessun altro giornale a quell’ora antelucana mi dava riscontro della news. Ma la notizia per me era vera perché il Corriere ha buoni informatori e le sue anticipazioni sono vere. Lì ho capito che la situazione in Italia era grave, gravissima. Nessuno si sogna di chiudere le scuole di tutta Italia per niente. Tuttavia, però come si ricorderà abbiamo avuto conferma alle 22 della chiusura delle scuole e università.
Come ho detto in precedenza, mercoledì 4 marzo avevo il turno pomeridiano. Quando sono arrivata a scuola per dare il cambio alla collega, le ho detto che i giornali e le tv assicuravano che avrebbero chiuso le scuole. L’aveva sentito anche lei, ma non avendo nessuna direttiva ufficiale ha salutato normalmente i nostri alunni di quinta.
Io sempre connessa con l’Ipad seguivo la pagina del Corriere e della Repubblica. Siamo andati in mensa, abbiamo fatto la ricreazione lunga. Rientriamo in classe e iniziamo lavorare, l’annuncio della chiusura era imminente, ma non arrivava. I bambini beatamente ignari continuavano le loro attività. Nel frattempo mi chiama la collega per dare tutti i quaderni e i libri, tra vedere e non vedere, meglio essere previdenti.
All’uscita da scuola mancava un’ora e mezza, poco tempo, ma troppo tempo per dirlo ai bambini. Così sono andata avanti, con il cuore in tumulto ho spiegato un argomento di grammatica. Dalla mia bocca usciva una voce voce calma e sorridente, che non corrispondeva ai miei pensieri agitati e in tumulto: come glielo dico? come reagiranno? Non devo impaurirli, ma non devo dirgli bugie.
Arrivano le 15,30. Ancora non c’è certezza della sospensione delle lezioni. Mentre andavo in bagno incrocio nell’andito una collega e le dico che i giornali davano per certa la chiusura, lei sgarbatamente mi risponde che arrivava dall’ufficio del dirigente e non c’era l’ufficialità. Per poco non litigo con lei.
Torno in classe. È ora di dirglielo, la scuola sarà chiusa per il coronavirus e non ci rivedremo per un po’ di tempo. Bisogna preparare i cuori e le borse. All’inizio erano occhi brillanti e sorrisi, che man mano si sono spenti, fino ad arrivare al pianto disperato.
Quei li ho tutti nelle orecchie e le immagini di quei momenti surreali li ho ancora ben presenti. Seduta sfinita alla cattedra, li guardavo abbracciarsi in lacrime, cercando tra loro consolazione e fazzoletti. Tutti piangevano, nessuno riusciva a consolare nessuno. Però erano insieme. Io in disparte, più disperata di loro, mi dicevo: – Che ho fatto? Non, c’è ancora la comunicazione ufficiale e li ho fatti piangere. Magari è una bolla di sapone e domani siamo tutti qua. I genitori mi ammazzano vedendo i visi disfatti dei loro figli.
Con calma ho ristabilito l’ordine: senza dire una parola alla lavagna ho iniziato a scrivere alcuni compiti e il materiale che dovevano portare a casa. Ci sarebbe voluta una carriola per ogni bambino. Ma non si poteva fare altrimenti.
Tutto era pronto, mancava un quarto d’ora all’uscita e per non cadere nello sconforto, per non far girare i pensieri e ricominciare a piangere, abbiamo letto le ultime pagine del libro che stavamo leggendo in classe. All’inizio nessuno seguiva, poi pian piano ci siamo fatti trasportare dalla voce del bambino che leggeva. E’ suonata la campana, ci siamo salutati come al solito, speranzosi di rivederci l’indomani, consapevoli che se fossimo rimasti a casa non sarebbe stata una vacanza.